wakwak | 2015

Il mondo dell’estetica solo nel suo continuo ridefinirsi perpetua la propria funzione. In che modo si può precedere in termini progettuali ciò che tende a manifestarsi o a ritrarsi come un’ immagine? O un ritratto? Come si può tracciare il prospetto di un divenire? Dove e come, possiamo delineare il profilo di un rapporto tra significazione e apparenza? Il caso, quanto influisce in tutto ciò? Lo sguardo porta inevitabilmente a un livello di conoscenza. A un pretesto per agire.

Imparare a vedere significa distillare progressivamente ciò che tramite le nostre immagini, attraversa una qualsiasi modellizzazione temporale. Questo rimestarsi tra significati, tempo e volontà, si trasforma in futuro. Questo futuro rimane una gabbia aperta, rimane ancorato a molteplici fattori ma allo stesso tempo si divincola irreversibilmente da essi in un processo dialettico: nelle possibilità che egli stesso crea. Possibilità di perdita, di ritorno, di passaggio. Diciamo questo futuro. Diciamo il nostro futuro. Sappiamo che lo abbiamo davanti anche se non riusciamo a delinearne i profili. Esiste quindi un “non visto”, un “non conosciuto” che diffonde un chiaro sintomo identificabile in un forte senso di appartenenza che si riscopre nonostante retaggio, lingua passata, materiale arrugginito che aleggia e sopravvive come oggetto, come pietra, come fantasma, come molti fantasmi. La trama di passaggi e contraddizioni quindi va letta e decifrata non soltanto in chiave storica, scientifica, archeologica, metaforica, ma anche prendendo in considerazione ciò che a noi rimane inconosciuto –ma possibile alla conoscenza- al termine di una determinata esperienza: le immagini della storia che attechiscono sui nostri corpi, quelli reali, quelli che viviamo in questo luogo, ora, che stabiliscono anche indirettamente le coordinate, si manifestano in molteplici modalità. Un’ accondiscendenza a un qualsiasi processo di assoggettamento non è così impotente e improduttiva nel proprio manifestarsi: necessita di una precisa rappresentazione temporale a cui fare riferimento, necessita anch’essa della distanza tra l’essere concepibile e il proprio continuo ridefinirsi, ma incide sulla realtà in maniera tanto diretta quanto quella di un qualsiasi sapere, di una qualsiasi azione progettata in termni funzionali, o senza scopi apparenti. I wakwak urlano e gesticolano, ma a volte come miraggi materici che travalicano i modelli temporali e culturali, si manifestano come semplici apparizioni composte e impassibili a vegliare sui tempi.

(…) i tempi trasparivano e si esprimevano per assilli, sopravvivenze, rimanenze, ritornanze delle forme, cioè per non saperi, per impensati per inconsci del tempo. Qui è dove il divenire delle forme viene espletato come insieme di processi tensivi. Tensioni opposte, volontà di identificazione/vincolo di alterazione, purificazione/ ibridazione, normale/patologico, ordine/caos, tratti di evidenza /tratti di impensato.”

[Georges Didi-Huberman]