leucos | 2013
leucós
la ragion d’essere di leucós è un ripensamento del rapporto tra superficie e fondo. non è certo un pensamento inedito nella pittura contemporanea quello d’intendere il fondo non più come il luogo sulla quale la superficie si agita o riposa, e sovente s’è detto del fondo l’essere un qualcosa d’appartenente per diritto alla superficie, un alcunché che la superficie porta con sé così come il lampo porta con sé il cielo nero, per prendere a prestito dalla filosofia un’immagine deleuziana. In quella ricerca in divenire che è leucós il rapporto tra la superficie e il fondo s’inverte per diritto, l’artista cessa d’essere colui che crea un vuoto per riempirlo col suo fare proprio, e il fondo diventa di fatto la superficie poiché il vuoto viene steso sul soggetto estetico stesso affinché sia esso a prendere parola, a riempire il vuoto di significato creando l’opera stessa. all’artista non rimane che un fare artigianale, non rimane che stendere quel fondo sulla superficie d’un soggetto estetico così come s’imbianca un ambiente per rinnovarlo, depurarlo, spersonalizzarlo. e bianco è il colore del fondo, leucós è il colore del vuoto.
la coltre è scesa sull’opera come neve sulla cittadella, è l’inverno dell’arte, la stagione nella quale l’artista non ha più nulla da dire se non imparare ad ascoltare il proprio fare. perché non c’è più nulla da dire, pensa, occorre smetterla di volere, potere e dovere dire qualcosa attraverso un opera, pensa, meglio tenere la bocca chiusa e le mani aperte, pensa, meglio prestare orecchio a quello che è il proprio operato anziché volere dire qualcosa per mezzo di esso, pensa. e solo a questo punto si accorge che la lotta non è mai cessata, si accorge che dopo il rinnovamento, la depurazione e la spersonalizzazione, la superficie risale nuovamente dal fondo per incarnarsi in una nuova immagine, ed è questo ciò di cui l’artista necessita per svernare, ovvero che l’opera parli un poco a suo dispetto, creando la propria poetica in un processo autopoietico. il bianco si sporca ancora una volta, e ancora una volta l’opera balbetta la sentenza wittgensteiniana: di tutto ciò su cui non si può parlare, occorre tacere.
benedetto perottoni


